A cura di Vittorio Provera
Il tema della qualificazione del rapporto tra una società per azioni ed il proprio amministratore, più precisamente se sia qualificabile come rapporto parasubordinato o autonomo, ovvero estraneo a tali ambiti, è oggetto di un dibattito giurisprudenziale che dura da oltre trent’anni e che, peraltro, aveva avuto già una presa di posizione della Corte di Cassazione a Sezione Unite.
Tuttavia, il nuovo assetto normativo sviluppatosi nell’ambito della disciplina delle società di capitali conseguente alle riforme legislative degli ultimi anni, ha sostanzialmente rimodificato l’approccio che, come vedremo, era stato assunto dalla giurisprudenza di legittimità nel 1994 ed ha quindi ora condotto ad un nuovo rilevante ripensamento della qualificazione del rapporto. Il caso in esame, deciso dalla Corte di Cassazione a Sezione con sentenza del 20 gennaio 2017 n. 1545, prende spunto da un’azione di pignoramento presso terzi promossa da una banca nei confronti di una persona fisica (debitore della banca), con pignoramento degli emolumenti e compensi che il soggetto aveva maturato quale amministratore unico di una Società e membro del consiglio di amministrazione di un’altra Banca (terzi pignorati).
Nell’ambito del giudizio riguardante il procedimento di pignoramento presso terzi, il Tribunale di Ancona – con ordinanza - aveva assegnato alla Banca procedente tutte le somme che i terzi pignorati avevano accantonato quali emolumenti per l’attività dell’amministratore/debitore sulla base degli incarichi societari sopra riportati.
Era, quindi, proposta opposizione ad opera del predetto amministratore, il quale affermava – fra gli altri – che la propria attività doveva ricondursi nell’ambito delle disposizioni di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c. (quindi attività parasubordinata), con conseguente limitazione della pignorabilità al solo quinto del totale. La relativa decisione del Tribunale di Ancona risultava del tutto opposta a quella del giudice dell’esecuzione; poichè in sentenza si motivava che l’attività in questione doveva, comunque, rientrare nell’ambito del cosiddetto lavoro parasubordinato (pure in presenza di contrasto giurisprudenziale) e, quindi, i relativi compensi dovevano ritenersi impignorabili oltre al limite del quinto.
A fronte di tale decisione era stato proposto ricorso avanti la Suprema Corte ad opera della Banca creditrice la quale, a prescindere da questioni di carattere processuale, ha lamentato che il giudice aveva omesso di accertare, in concreto, il grado eventuale di subordinazione, considerando che il debitore peraltro svolgeva la stessa attività - contemporaneamente - presso diversi Enti. Inoltre dovevano escludersi, nel caso di specie, le caratteristiche di continuità e di coordinazione che in qualche modo qualificano un rapporto parasubordinato, anche ai sensi dell’art. 409 n. 3 c.p.c.
La Suprema Corte, a Sezioni Unite ha, dapprima, effettuato una ricognizione del quadro normativo di riferimento sotteso al caso in esame. Più precisamente ha rilevato che, con le leggi n. 311/2004 e n. 80/2005, è stato esteso al settore privato la disciplina di cui al D.P.R. n.180 del 1950, finalizzata originariamente a regolamentare i rapporti di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione. A fronte di tali modifiche è stato posto un limite al pignoramento e sequestro di stipendi, salari e retribuzioni fino alla concorrenza di un quinto; mentre nell’ipotesi di compensi corrisposti nell’ambito di rapporti lavoro parasubordinato (di cui all’art 409 n. 3 c.p.c.), gli stessi sono sequestrabili e pignorabili nei limiti di cui all’art. 545 c.p.c. e, quindi, ancora una volta nella misura di un quinto.
Dunque solo i crediti di lavoro dipendente e parasubordinato hanno la previsione del limite di pignorabilità.
Da ciò consegue l’importanza di una corretta valutazione della riconducibilità dei compensi percepiti dagli Amministratori nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, o di lavoro autonomo di altro tipo, o di rapporto di diversa natura; poiché l’esatta qualificazione giuridica del medesimo condiziona anche la possibilità di integrale (o parziale) espropriazione dei compensi ad opera dei creditori procedenti.
La Suprema Corte ha, po, i ricostruito i diversi orientamenti formatisi in dottrina ed in giurisprudenza e sintetizzabili in due fondamentali teorie: a) la cosiddetta teoria contrattualistica, secondo la quale vi sarebbe un vero e proprio negozio giuridico che disciplina i rapporti tra due soggetti distinti, l’amministratore da un lato e la società dall’altro, ciascuno autonomo centro di interessi anche contrapposti; b) la cosiddetta teorica organica, a fronte della quale si configura solitamente una immedesimazione dell’organo dell’amministratore nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità di un regolamento negoziale interno. Su questo contrasto era intervenuta la stessa Cassazione a Sezioni Unite, con pronuncia del 14 dicembre 1994 n. 10680, con la quale si era affermato che all’interno dell’organizzazione societaria sono individuabili rapporti di credito nascenti da un’attività (come quella resa dall’amministratore) che ben può presentare i requisiti di continuità, coordinazione ed il carattere prevalentemente personale; cosicché la natura imprenditoriale del ruolo di amministratore non impedisce la configurazione di un rapporto di parasubordinazione; come del resto ammesso nella figura dell’institore (che peraltro opera in regime di subordinazione).
Tuttavia detta pronuncia non ha fatto venir meno i contrasti giurisprudenziali negli anni successivi, cosicché altre sentenze hanno affermato la tesi del rapporto di lavoro autonomo, pur con generico riferimento all’immedesimazione organica; in tale panorama si è altresì asserito il principio di non applicabilità del principio di cui all’art. 36 Cost., con conseguente ammissione della disponibilità e rinunciabilità del compenso (si veda tra le tante Cass. sentenza n. 19714/12).
In aggiunta, è intervenuta la novità della riforma del diritto societario (D. Lgs. 168 del 2003), con la quale l’Organo Amministrativo è qualificato come figura egemone nell’organizzazione societaria, con un potere di gestione esclusiva ex art. 2380 bis c.c., nonché un potere di rappresentanza generale ex art. 2384 c.c.; mentre all’Assemblea dei Soci è riservato un potere di autorizzazione degli atti amministrativi ex artt. 2364 n. 5 c.c., in presenza di previsioni statutarie, ma senza poter limitare l’autonomia decisionale degli amministratori.
E ancora, è demandata al Tribunale dell’Imprese la competenza in merito alle controversie relative ai rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, costituzione, modificazione o estinzione del rapporto societario, compresi quelli tra società e amministratori, sull’assunto che questi ultimi svolgano un ruolo essenziale per la società (Cass. 9 luglio 2015 n. 14369).
Dal complesso di tali elementi, le Sezioni Unite della Suprema Corte - nella pronuncia in esame - sono pervenute alla conclusione che il rapporto tra amministratore e società non può qualificarsi né come contratto d’opera, né come rapporto subordinato o parasubordinato, ma come rapporto di tipo “societario”, che “in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall’art. 409 c.p.c. n. 3”.
Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti, per le funzioni svolte in ambito societario, sono pignorabili senza i limiti previsti dall’art. 545 c.p.c. comma 4.
La pronuncia costituisce una radicale presa di posizione a favore della tesi della immedesimazione organica, sulla base del modello societario e struttura di governance introdotta dalle modifiche normative. Presumibilmente ciò avrà anche dei riflessi sotto altri profili, non solo relativi agli emolumenti, ma anche al rapporto sostanziale.